logo-sito

slide-27 slide-20 slide-21 slide-22 slide-23 slide-24 slide-25 slide-26 slide-28 slide-29 slide-30 slider-31 slide-32
slide-26.jpg

Sulle ali di un sogno

 

 - Sulle ali di un sogno - di Luigi Bruno 

Gli mancavano, però, i fondi per intraprendere una qualsiasi attività individuale e nel contempo le sue preoccupazioni aumentavano, sentiva di non essere stato capace di realizzare qualcosa, e questo fatto lo preoccupava sempre di più, gli faceva acquisire un maggior complesso di pensieri e di aspirazioni che sarebbero diventati, poi, parte essenziale della sua vita interiore.
Ritaglio di giornaleUno spiraglio gli fu aperto dall’incontro negli anni ’60 con un italoamericano (Furneri, mi pare) con il quale aprì, al 1429 di Stockton Street, dove adesso si trova il Ristorante Firenze, un negozio, il North Beach Bazar, per la vendita di oggetti casalinghi, occasione questa che gli diede la possibilità di imparare, a suo rischio e pericolo, a gestire una attività commerciale vera e propria, con mentalità e modalità diverse da quelle italiane.
Fu un duro apprendistato . I grandi empori, forniti di tutto, rappresentavano una concorrenza spietata sia per la qualità che per la quantità delle merci che per i prezzi, anche se l’importazione diretta di alcuni prodotti italiani gli davano un certo respiro per la novità e per la qualità.
Anche quello fu un periodo abbastanza duro, certo riusciva a mantenere la famiglia, ma non riusciva ad uscire da una situazione che lo stava soffocando e che lo riconduceva nella condizione di chi non aveva ancora realizzato nulla.
Nel frattempo, però, i suoi rapporti interpersonali con la gente dell’ambiente che frequentava aumentavano e si affinavano le sue qualità commerciali. La nascita di Roberto lo colse in un particolare stato cioè quello di dovere fare di più, di volere sbloccare definitivamente una situazione di stallo che lo rendeva sempre più ansioso ed esigente con se stesso.In quel periodo (Luglio 1965) ebbi l’occasione di andarlo a trovare a San Francisco e rendermi conto della situazione in cui si trovava, dei suoi progetti dai quali si evinceva una esigenza assoluta di giungere a mete più alte.I contatti epistolari con noi erano intensi: ci raccontava tutto quanto accadeva e nelle sue lettere era evidente uno stato ansioso sulla realizzazione dei suoi progetti.

Un giorno, come mi raccontò poi, un italoamericano di Los Angeles (Pasquini) entrò nel suo negozio e gli chiese se era possibile lasciare in deposito alcune macchine da caffè di produzione italiana, in quanto per sua esigenza non intendeva riportarle a Los Angeles. Continuando nel suo discorso, Pasquini lo autorizzava a verderle e così avrebbe potuto riconoscergli una percentuale.
Franco, frastornato, gli disse di non potere fornire garanzie per tale deposito e gli chiese il perché di tanta fiducia nei suoi confronti; Pasquini rispose semplicemente che si fidava, egli così si rese subito conto che il suo momento era arrivato; accettò, quindi, di tenere le macchine in deposito.
Scattò subito in lui una grande frenesia, pensò bene che se avesse voluto vendere delle macchine da caffè italiane, per entrare in un così grande mercato, avrebbe dovuto, innanzi tutto, conoscerne le funzioni e come, eventualmente ripararle.
A questo punto è bene ricordare che Franco, in Italia, aveva lavorato come radio riparatore e come elettricista e quindi tali competenze ed una naturale predisposizione gli consentivano una migliore visione dei problemi tecnici attinenti le macchine. L’altra parte della serata la dedicava alla visita a bar e ristoranti della città nei tentativi di fare capire l’importanza di una macchina da caffè italiana; tali tentativi, come era prevedibile, nei primi tempi furono infruttuosi. Non vi era ancora una mentalità in favore del caffè italiano e per i particolari congegni di tali macchine nonché per i costi relativi che lasciavano perplessi i titolari dei bar e dei ristoranti.
La stanchezza e la minore attenzione dedicata alla sua attività primaria lo fecero preoccupare, si avvicinava ad una svolta importante della sua vita e doveva prendere una decisione.
Le sue fatiche furono premiate, le richieste da parte dei bar e dei ristoranti incominciarono a diventare numerose anche perché egli offriva le macchine in prova suggerendo le modalità per pubblicizzare il nuovo prodotto ed assicurava la sua assistenza tecnica per le eventuali riparazioni che sarebbero state effettuate al di fuori delle ore di lavoro, praticamente di notte.
Nel corso delle sue visite ebbe l’incarico dal proprietario del Malvina Coffee di Grant Street, all’incrocio con Union Street, di fare sapere che tale bar era in vendita.
 
Foto del Negozio
Pur parlando in giro nessuno era particolarmente interessato ed allora il proprietario di   Malvina Coffee propose a lui l’acquisto. Tale proposta suscitò in Franco delle grosse reazioni, delle titubanze e delle preoccupazioni; l’idea di immettersi in una attività del tutto sconosciuta e la mancanza di fondi diventarono i temi conduttori di una battaglia interiore che lo spinsero a dover riflettere per decidere in tempi molto brevi.
Poté assistere personalmente al movimento giornaliero delle attività del bar e dopo essersi reso conto di come funzionavano le cose, la sua mente selettiva gli consigliò di approfittare subito di questa occasione. Lo scoglio maggiore da superare era quello del reperimento dei fondi per il pagamento della transazione: in questo gli venne incontro il venditore stesso che gli propose il pagamento rateale. In uno stato semi-confusionale, ma con la certezza di addentrarsi ancor più in quell’itinerario che aveva, da sempre sognato di percorrere, decise di assumere questo nuovo impegno che lo doveva fare uscire definitivamente da una impasse che durava da circa 15 anni.

Sulle ali di un sogno

 

 - Sulle ali di un sogno - di Luigi Bruno 

Gli mancavano, però, i fondi per intraprendere una qualsiasi attività individuale e nel contempo le sue preoccupazioni aumentavano, sentiva di non essere stato capace di realizzare qualcosa, e questo fatto lo preoccupava sempre di più, gli faceva acquisire un maggior complesso di pensieri e di aspirazioni che sarebbero diventati, poi, parte essenziale della sua vita interiore.
Ritaglio di giornaleUno spiraglio gli fu aperto dall’incontro negli anni ’60 con un italoamericano (Furneri, mi pare) con il quale aprì, al 1429 di Stockton Street, dove adesso si trova il Ristorante Firenze, un negozio, il North Beach Bazar, per la vendita di oggetti casalinghi, occasione questa che gli diede la possibilità di imparare, a suo rischio e pericolo, a gestire una attività commerciale vera e propria, con mentalità e modalità diverse da quelle italiane.
Fu un duro apprendistato . I grandi empori, forniti di tutto, rappresentavano una concorrenza spietata sia per la qualità che per la quantità delle merci che per i prezzi, anche se l’importazione diretta di alcuni prodotti italiani gli davano un certo respiro per la novità e per la qualità.
Anche quello fu un periodo abbastanza duro, certo riusciva a mantenere la famiglia, ma non riusciva ad uscire da una situazione che lo stava soffocando e che lo riconduceva nella condizione di chi non aveva ancora realizzato nulla.
Nel frattempo, però, i suoi rapporti interpersonali con la gente dell’ambiente che frequentava aumentavano e si affinavano le sue qualità commerciali. La nascita di Roberto lo colse in un particolare stato cioè quello di dovere fare di più, di volere sbloccare definitivamente una situazione di stallo che lo rendeva sempre più ansioso ed esigente con se stesso.In quel periodo (Luglio 1965) ebbi l’occasione di andarlo a trovare a San Francisco e rendermi conto della situazione in cui si trovava, dei suoi progetti dai quali si evinceva una esigenza assoluta di giungere a mete più alte.I contatti epistolari con noi erano intensi: ci raccontava tutto quanto accadeva e nelle sue lettere era evidente uno stato ansioso sulla realizzazione dei suoi progetti.

Un giorno, come mi raccontò poi, un italoamericano di Los Angeles (Pasquini) entrò nel suo negozio e gli chiese se era possibile lasciare in deposito alcune macchine da caffè di produzione italiana, in quanto per sua esigenza non intendeva riportarle a Los Angeles. Continuando nel suo discorso, Pasquini lo autorizzava a verderle e così avrebbe potuto riconoscergli una percentuale.
Franco, frastornato, gli disse di non potere fornire garanzie per tale deposito e gli chiese il perché di tanta fiducia nei suoi confronti; Pasquini rispose semplicemente che si fidava, egli così si rese subito conto che il suo momento era arrivato; accettò, quindi, di tenere le macchine in deposito.
Scattò subito in lui una grande frenesia, pensò bene che se avesse voluto vendere delle macchine da caffè italiane, per entrare in un così grande mercato, avrebbe dovuto, innanzi tutto, conoscerne le funzioni e come, eventualmente ripararle.
A questo punto è bene ricordare che Franco, in Italia, aveva lavorato come radio riparatore e come elettricista e quindi tali competenze ed una naturale predisposizione gli consentivano una migliore visione dei problemi tecnici attinenti le macchine. L’altra parte della serata la dedicava alla visita a bar e ristoranti della città nei tentativi di fare capire l’importanza di una macchina da caffè italiana; tali tentativi, come era prevedibile, nei primi tempi furono infruttuosi. Non vi era ancora una mentalità in favore del caffè italiano e per i particolari congegni di tali macchine nonché per i costi relativi che lasciavano perplessi i titolari dei bar e dei ristoranti.
La stanchezza e la minore attenzione dedicata alla sua attività primaria lo fecero preoccupare, si avvicinava ad una svolta importante della sua vita e doveva prendere una decisione.
Le sue fatiche furono premiate, le richieste da parte dei bar e dei ristoranti incominciarono a diventare numerose anche perché egli offriva le macchine in prova suggerendo le modalità per pubblicizzare il nuovo prodotto ed assicurava la sua assistenza tecnica per le eventuali riparazioni che sarebbero state effettuate al di fuori delle ore di lavoro, praticamente di notte.
Nel corso delle sue visite ebbe l’incarico dal proprietario del Malvina Coffee di Grant Street, all’incrocio con Union Street, di fare sapere che tale bar era in vendita.
 
Foto del Negozio
Pur parlando in giro nessuno era particolarmente interessato ed allora il proprietario di   Malvina Coffee propose a lui l’acquisto. Tale proposta suscitò in Franco delle grosse reazioni, delle titubanze e delle preoccupazioni; l’idea di immettersi in una attività del tutto sconosciuta e la mancanza di fondi diventarono i temi conduttori di una battaglia interiore che lo spinsero a dover riflettere per decidere in tempi molto brevi.
Poté assistere personalmente al movimento giornaliero delle attività del bar e dopo essersi reso conto di come funzionavano le cose, la sua mente selettiva gli consigliò di approfittare subito di questa occasione. Lo scoglio maggiore da superare era quello del reperimento dei fondi per il pagamento della transazione: in questo gli venne incontro il venditore stesso che gli propose il pagamento rateale. In uno stato semi-confusionale, ma con la certezza di addentrarsi ancor più in quell’itinerario che aveva, da sempre sognato di percorrere, decise di assumere questo nuovo impegno che lo doveva fare uscire definitivamente da una impasse che durava da circa 15 anni.

Appello

Possiedi foto, quadri, filmati, documenti o ricordi che riguardano la Colombaia?
Contatta il Luigi Bruno - Presidente dell'Associazione Salviamo la Colombaia - Cell. 339/8002539
oppure invia una segnazione tramite mail dalla pagina dei contatti sul nostro sito.